IN VIAGGIO CON DANTE LA CRITICA |
L’Inferno dantesco nelle ceramiche di Giovanni Massolo Sono legione, ormai, gli illustratori della Comedìa dantesca, vale a dire gli artisti che con mezzi plastico-pittorici hanno cercato di tradurre in immagini il poema dell’Alighieri, lasciandosi guidare dal testo poetico e concentrando la propria attenzione sulle scene di volta in volta più ricche di pathos e di significato. Ma gli illustratori, salvo rari casi, si premurano anzitutto di restare fedeli al dettato dantesco, attenendosi alla lettera e mantenendosi, di conseguenza, in una condizione di dipendenza ancillare, scevra di scarti eccessivi e aliena da soluzioni troppo soggettive. Certo ognuno ci mette del suo, non fosse altro lo stile. Ma l’esito è tutto sommato didascalico e non può prescindere dal testo di cui cerca di sintetizzare il senso attraverso la concentrazione spaziale, isolando nel continuum della narrazione quegli episodi che meglio si prestano a riassumerne e a rifletterne la temperie, a cogliere un carattere, a sottolineare vuoi con il segno (e il disegno) vuoi con l’accorto uso del colore i momenti salienti, di più concitata drammaticità o di più lirica suggestione. Scene esemplari, quindi, particolarmente significative per la loro pregnanza simbolica e/o psicologica. C’è chi privilegia gli aspetti scenografici, chi il contrasto chiaroscurale, chi mette a fuoco l’espressività dei volti o dei gesti dei personaggi e chi si affisa sul paesaggio, sugli sfondi ambientali. In ogni caso non va dimenticato che le illustrazioni nascono per affiancare il testo, per assecondarne la lettura. Diverso discorso andrà invece fatto laddove - nell’intenzione dell’artista - sull’illustrazione prevalga l’interpretazione o, per meglio dire, la traduzione in termini iconografici delle emozioni suscitate dalla lettura del “poema sacro”. Il ricorso ad un altro codice segnico ed estetico risponde in questo caso ad un’esigenza eminentemente soggettiva: il testo dantesco, in altre parole, funge da stimolo o, se vogliamo, da pretesto. È l’esca da cui si sprigiona l’incendio, ma viene meno, per l’artista, l’obbligo di un’adesione figurativa davvero stringente. La transitività delle immagini non è più indispensabile, giacché, pur essendo suggerite dai versi, hanno innanzi tutto il compito di renderne il riverbero psichico, le risonanze interiori. L’obiettivo si sposta allora dal testo al lettore, la cui anima diventa lo specchio o il filtro - soggettivamente connotato e quindi per certi aspetti deformante - delle vicende narrate o delle atmosfere evocate. Al calor bianco dell’interiorità perturbata e commossa i sentimenti acquistano un’incandescenza cromatica, i gesti dei personaggi ed i contorni dei paesaggi si sfrangiano in ondulazioni che ricordano ora i riflessi di uno stagno sommosso, ora le vibrazioni di certe vetrate di chiesa verberate o trafitte da una luce inquieta. Delle cose rimane, a volte, un vago ricordo. Niente più che ombre in movimento sulla parete di una platonica caverna. Il colore si effonde nell’incontenibile, imprevedibile libertà degli smalti, esplodendo, sotto l’effetto dello shock termico, in accensioni improvvise o dilagando, ora in un lene fluire, ora in vorticosi tourbillons, secondo l’alternarsi e l’affastellarsi delle emozioni, in un’oscillazione tra ordine (geometrico) e caos che potremmo dire casuale solo se Dio giocasse davvero ai dadi. In realtà, caso e necessità qui coincidono. Ci accorgiamo, a questo punto, di essere inopinatamente passati dal piano generale alla fattispecie, perché parliamo qui di una particolare e determinata forma di interpretazione, e cioè delle mattonelle e dei piatti di ceramica smaltata ispirati a Giovanni Massolo dalla lettura dell’Inferno dantesco. Delle “occasioni” l’artista non abolisce ogni traccia referenziale, ma è indubbio che è il colore, anzi la materia cromatica, a dominare, seguendo le sue leggi, che non sono necessariamente quelle della ragione. La realtà di superficie ne viene trasfigurata o stravolta, per essere surrogata da una più profonda, “altra”, che si sprigiona, come una forza tellurica, dall’intimo. Un espressionismo di base investe questa pittura che, nei suoi esiti migliori, scava nel magma incandescente delle emozioni e gioca sui contrasti marcati, sulle dissonanze, più di quanto non cerchi accordi armonici o stemperamenti tonali. Incisioni ed asperità aggettanti vogliono dare rilievo all’orrore dei luoghi e al dolore che strazia i dannati. E con essi i lettori. Ovviamente anche Massolo sceglie alcuni momenti esemplari del poema: quelli dove il sentimento o la suspense pervengono all’acme della loro intensità e dove più febbrili di contenuta passione o più esplosivi nella loro viscerale violenza si fanno le tinte. E così anatemi e bestemmie, estasi e lamenti sont – per dirla con Baudelaire – un écho redit par milles labyrinthes e tutt’insieme costituiscono pour les coeurs mortels un divin opium. I Greci, non troppo diversamente, parlavano di kàtharsis, con riferimento alla purificazione delle passioni umane di cui solo la grande arte è davvero capace. Carlo Prosperi |
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Un Inferno di colori L’oltretomba dantesco è prima di tutto un sentimento di cose vaste e meravigliose agli occhi. La voragine abissale, il monte che si dilaga dall’oceano, le plaghe della luce paradisiaca sono visioni realizzate secondo le leggi della pittura, con intuizioni che rammentano, e talvolta addirittura superano, le esperienze artistiche dell’età. …In senso storico e poetico, il “linguaggio figurativo” di Dante costituisce l’aspetto meno medioevale del poema e propone un nuovo punto di lettura e di indagine. E quanto questo sia legittimo, per non dire necessario alla compiuta intelligenza dell’opera, lo dimostra la grande tradizione figurativa che la Commedia ha ispirato. Per secoli artisti di diversa portata e intenzione hanno interpretato, studiato e reso, sia pure con indipendenza di genio, le indicazioni visive del suo testo poetico (G. Di Pino).
Mi è sembrato naturale ed inevitabile che Massolo, da sempre affascinato dalla storia, dalla narrativa e dalla poesia, un giorno o l’altro dovesse incontrarsi con i versi di Dante, soprattutto con quelli dell’Inferno, senza dubbio più stimolanti nell’assecondare la sua ispirazione in un richiamarsi diretto, fatto di emozioni precise e presenti, più che di veli di memoria. E in questa compresenza di cultura e di passioni, pochi artisti sanno essere, come lui, così coinvolti e coinvolgenti. Addentrandosi tra i toni cupi della selva, il pittore è stato letteralmente rapito dai passi nei quali la versatilità della fantasia dantesca ha dato voce a grandi personaggi in cui sembra, di volta in volta, incarnarsi un aspetto della varia casistica della vita umana. Ad affascinarlo, infatti, in modo particolare, sono la vicenda travolgente degli amanti di Rimini, la stolta e furiosa superbia di Filippo Argenti, l’eroica e tragica volontà di conoscenza di Ulisse e dei suoi compagni, la pietosa storia di Ugolino, la figura statuaria di Farinata, quella patetica di Cavalcante. Diventa un tutt’uno trasferire nella brillantezza degli smalti, con l’impeto e lo slancio di una forza trasfiguratrice, il pulsare delle emozioni, la commozione, il trasporto, la pietà e il turbamento che le rime infernali risvegliano in lui. I pezzi più avvincenti sono certamente quelli in cui Massolo distrugge, con gestualità irruente, ogni forma e costruisce accumulazioni stratigrafiche di materia colorata. In essi emergono incontenibili apparizioni, singolari e drammatiche, non precostituite mentalmente, ma suggerite direttamente dal sub-conscio. Egli sembra far sua la frase che Karel Appel amava ripetere: “Il mio tubetto di colore è come un razzo che descrive il proprio spazio, non posso prevedere quello che sta accadendo, è una sorpresa”. Queste composizioni, di matrice grafica, ma di consistenza pittorica, accentuano la componente dinamica e ricordano l’automatismo energetico di Vedova: vere e proprie esplosioni che, con le loro colate incandescenti, in cui prevalgono rossi, blu e gialli, frantumano ogni parvenza di organizzazione razionale. Massolo è inebriato dal processo del dipingere: la tempesta di colori carica lo spazio di tensione annullando l’aspetto visivo delle cose in esso contenute. La pennellata si condensa d’improvviso, si riempie di carica elettrica, di materia deflagrante, frutto di un’accesa fantasia inventiva, in funzione di un ritmo straripante di espressività, esaltato fino ad essere visionario. La sua opera appare veramente come l’espressione tumultuosa, piena di temperamento ricco e creativo, di una vena traboccante e geniale. L’artista porta così a compimento il proprio intimo istinto vitalistico, grazie al quale l’arte diventa un atto di partecipazione intensa ed affascinante: incontrando Dante egli ritrova se stesso e imbocca una nuova strada, decisa a toccare tutte le corde della sua creatività. Arturo Vercellino |
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L’artista come demiurgo, l’arte come esistenza: la vita è un’ esperienza titanica, un viaggio da cui nessuno esce incontaminato. Tutti potremmo incamminarci all’inferno se l’Inferno e quello che Giovanni Massolo racconta con le sue ceramiche dense di smalti, forti e magmatiche come appena rubate al fuoco della fornace. Lucide e scabre, carne della carne, palpitanti come l’argilla fresca nelle quali sono state modellate e graffite, queste opere dimostrano come Massolo abbia direttamente inflitto alla materia quelle medesime tensioni espressioniste che avevano caratterizzato gli esiti recenti della sua ricerca artistica: la Via Crucis nei dipinti del 2003, con il travagliato percorso di Cristo dal volto tumefatto, divenuto icona di sofferenza; il ritorno alla Grecia vagheggiato nelle ceramiche del 2008 alla ricerca delle verità dell’anima che nel mito trova il suo rifugio per comprendere le angosce di una identità dilaniata. L’eternità dell’Inferno di Giovanni Massolo non è un’idea ma un groviglio di sensazioni che si intrecciano e sovrappongono senza direzione, oltre il tempo e oltre lo spazio. Negli smalti i colori più forti e decisi, il blu scuro, il rosso sangue che diventa fuoco quando è avvicinato al giallo, lasciano spazio a cromatismi più tenui, l’azzurro, il rosa carico: nell’Inferno di Giovanni Massolo, come in quello dantesco, non vi è dolore senza piacere né disperazione senza serenità. La dimensione, attraverso la quale possono essere comprese, è personale ed epica, decisamente attuale, come la Commedia dantesca. I personaggi dell’Inferno di Giovanni Massolo manifestano loro malgrado un’identità interrotta, come Paolo e Francesca portati dal vento, amanti che si rispecchiano nei volti muti e dolcissimi di Lancillotto e Ginevra (V, vv. 73-75). Le parole suonano come i rumori interferenti di una radio, i nomi dei protagonisti sembrano scritti sulle lapidi o sulla rena di una spiaggia, che l’onda del mare prima o poi cancellerà; il tormento dei dannati è un continuo alternarsi di situazioni che li destabilizzano. Forse è proprio il fatto di essere consapevoli della propria struggente debolezza a renderli così eroici, forti e indimenticabili quanto più le loro piccole figure ci appaiono sagome vuote, leggere come ombre, in balia della forza cromatica che sta per fagocitarle: “Miserere di me”, è il lamento che proferisce dalla bocca del viaggiatore (I, v. 65). Nonostante questo hanno una dignità perché il loro essere cenere e polvere li vincola alla terra e la terra è comunque protagonista nell’Inferno: putrida o densa melma accoglie i golosi (VI, vv. 10-15), sepolcro infuocato per gli eretici (X, vv. 7-9), la terra si eleva come montagna, scura, altissima, a determinare la fine del viaggio di Ulisse e la sua morte (XXVI, vv. 118-142): pazzescamente Ulisse, emblema delle più alte virtù dell’uomo, lui, che aveva cercato e seguito le vie della conoscenza per riscattarsi dalla brutalità ignorante, proprio lui è all’Inferno, non lontano dal conte Ugolino, che la sofferenza ha stravolto e ridotto a feroce animale, amalgama di sangue e materia, non meno struggente di tutte le altre creature perdute per sempre in quel non spazio, in quel non che è l’Inferno (XXXIII, vv. 1-3). LORENZA ROSSI |